Può capitare, nel corso del rapporto di lavoro, che un dipendente si trovi improvvisamente a svolgere compiti meno qualificanti e professionalizzanti rispetto a quelli abituali.
Questa situazione, conosciuta come demansionamento, può incidere negativamente sulla dignità professionale e sulle prospettive di carriera del lavoratore.
COSA SI INTENDE PER DEMANSIONAMENTO?
Il demansionamento si verifica quando al lavoratore vengono assegnate mansioni inferiori rispetto a quelle previste dal suo inquadramento contrattuale.
Non si tratta solo di “fare meno cose”, ma di un cambiamento che incide sulla professionalità acquisita, sul ruolo ricoperto o sul prestigio interno all’azienda.
Fino al 2015, la legge vietava in modo assoluto l’assegnazione a mansioni inferiori.
Oggi, l’art. 2103 del Codice Civile consente il demansionamento solo in casi ben precisi, come:
- modifica dell’organizzazione aziendale che incide sul ruolo del lavoratore;
- accordi individuali siglati in sede protetta (es. presso un sindacato o una commissione di certificazione);
- previsioni dei contratti collettivi.
QUANDO È ILLEGITTIMO?
Il demansionamento è illegittimo quando non vi è una valida giustificazione o quando è attuato con modalità tali da svuotare di contenuto il ruolo del dipendente.
Anche l’inattività forzata, cioè il mancato affidamento di compiti, può configurare una forma di dequalificazione.
In questi casi, il lavoratore può:
- rifiutare di prestare le nuove mansioni purché il rifiuto si proporzionato e fondato (art. 1460 c.c.) – si consiglia comunque di farsi sempre assistere da un legale anche in questa fase onde evitare il generarsi di situazioni critiche per il lavoratore (avvio di procedimenti disciplinari);
- agire in giudizio per ottenere il riconoscimento del proprio diritto e, se del caso, il risarcimento del danno subito.
QUALI TUTELE SONO PREVISTE?
Il lavoratore ha diritto:
- al ripristino della situazione ex ante e quindi all’assegnazione alle sue mansioni originarie (o equivalenti),
- al risarcimento del danno subito anche per il danno alla professionalità o eventuali altri voci di danno, se dimostra di aver subito un effettivo pregiudizio.
La prova del danno può essere fornita anche con presunzioni, ad esempio dimostrando la perdita di responsabilità o l’esclusione da attività formative.
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