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Dimissioni per fatti concludenti: nuova disciplina, dubbi applicativi e prime risposte giurisprudenziali

Con l’introduzione del nuovo comma 7-bis all’art. 26 del D. Lgs. 151/2015, ad opera della L. 203/2024 (Collegato Lavoro), è stata disciplinata per la prima volta la risoluzione del rapporto di lavoro per volontà del lavoratore manifestata attraverso comportamenti concludenti.

Una norma nata con finalità antifrode, soprattutto per contrastare l’uso strumentale del licenziamento disciplinare volto a consentire al lavoratore di accedere alla NASpI e al tempo stesso alleggerire i costi a carico del datore di lavoro.

LE CONDIZIONI PER LA RISOLUZIONE IMPLICITA DEL RAPPORTO

La norma prevede che il rapporto si *intende risolto per volontà del lavoratore* nei casi di assenza ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal CCNL o, in mancanza, superiore a 15 giorni di calendario. In tal caso:

  • il lavoratore non ha diritto alla NASpI;
  • il datore è esentato dal ticket licenziamento.

La risoluzione, tuttavia, non è automatica: occorre una comunicazione del datore di lavoro all’INL, che può (ma non deve) svolgere una verifica sulla veridicità della dichiarazione e sulle eventuali giustificazioni addotte dal lavoratore.

Se entro 30 giorni l’INL non solleva obiezioni, la risoluzione si intende confermata.

NUMEROSE SONO LE CRITICITÀ SOLLEVATE IN DOTTRINA E IN GIURISPRUDENZA:

  1. Irretroattività: come chiarito dal Tribunale di Trento (sent. n. 87/2025), le assenze anteriori al 12 gennaio 2025, data di entrata in vigore della norma, non possono essere considerate ai fini della risoluzione di fatto del rapporto.
  2. Conflitto tra fonti: il Ministero del Lavoro, con la circolare 6/2025, ha ritenuto inderogabile il termine minimo di 15 giorni. Tuttavia, alcune pronunce di merito valorizzano invece il termine previsto nei CCNL, se più breve (es. 3 o 4 giorni), come già accade per il licenziamento disciplinare.
  3. Ruolo dell’INL: l’Ispettorato, oltre a raccogliere la comunicazione, assume una funzione quasi “certificativa” dell’effettiva volontà del lavoratore, con poteri di verifica che tuttavia potrebbero dar luogo a contenziosi se esercitati in modo parziale o con esiti non motivati.

RISCHI PER I DATORI DI LAVORO

Nonostante l’intento deflattivo della norma, l’utilizzo dell’istituto presenta profili di rischio per i datori di lavoro, che restano esposti a:

  • impugnazioni da parte del lavoratore (specie se non correttamente informato o reperibile);
  • contestazioni sulla corretta applicazione del termine di assenza;
  • possibile riclassificazione della fattispecie in licenziamento, con conseguente applicazione delle tutele vigenti.

In tale contesto, una scelta cautelativa – come suggerito anche da alcuni commentatori – resta quella di ricorrere all’ordinaria procedura disciplinare per le assenze inferiori ai 15 giorni, riservando l’uso del nuovo istituto ai soli casi più netti.

CONSIDERAZIONI FINALI

Il nuovo comma 7-bis rappresenta un tentativo di colmare un vuoto normativo, emerso in seguito ad alcune sentenze isolate (Trib. Udine, 2022) e accentuato da condotte elusive tanto da parte dei lavoratori quanto, talvolta, dei datori di lavoro.

Tuttavia, come spesso accade nei casi di “normazione d’urgenza”, il risultato è un ibrido normativo, che da un lato introduce formalismi rigidi, dall’altro lascia margini d’incertezza interpretativa.

In attesa di un consolidamento della prassi e della giurisprudenza, resta centrale – per entrambi i soggetti del rapporto – la tracciabilità delle condotte e la prudenza nell’applicazione dell’istituto, specie in assenza di indicazioni univoche da parte del Ministero o di linee guida operative condivise.

 

Studio Legale Brambilla a Seveso, nella provincia di Monza e Brianza, specializzato in diritto del lavoro e previdenziale.

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